mercoledì 2 settembre 2015

Chameleon's Dish - Capitolo X


Secondo Intermezzo

Sono steso sul letto a luci spente.
Le mensole sono così piene di roba che ho dimenticato di mettere in ordine, che sulle pareti si formano ombre frastagliate.
Da bambino quelle ombre mi ricordavano il profilo di misteriosi mostri che volevano uccidermi nel sonno. Chiamavo mio padre perché avevo paura. Ricordo che mio padre mi diceva di non rompere e mi lasciava da solo.
Fisso quella infinità di profili aguzzi sulle pareti della mia stanza e fumo una sigaretta per calmarmi.
Maria diceva sempre che fumare a letto è una brutta abitudine. Non so chi le ha messo in testa l'idea che ci si possa bruciare vivi con un mozzicone caduto su un lenzuolo.
Ho la schiena appoggiata alla spalliera del divanoletto, i cuscini mi fanno sembrare per metà seduto.
Di fronte a me c’è il balcone che dà sul vicolo dal quale entra l'odore umido della strada e puzza di immondizia bruciata.
Fuori al balcone c’è Atropo, immersa in un’atmosfera color arancio alla luce del lampione che mi hanno piazzato proprio lì fuori per rendere le strade più sicure.
Lei è di spalle e non posso fare a meno di guardarle il culo, che sembra tondo e sodo e mi pare che voglia farsi toccare ad ogni costo. Per un istante penso che vorrei prenderla così, alla schiena, lì fuori e fanculo se ci vedono tutti.
Poi lei si gira, nel suo tubino nero, e mi guarda con gli occhi che sembrano voler ridere.
“È un bel volo da qui. Non trovi?”
Appoggia i gomiti alla ringhiera e continua a guardarmi.
“Penso di sì.” Le rispondo cacciando fumo di bocca.
Lei cammina ancheggiando verso di me. Sono pochi passi fino al letto, una stanza troppo stretta, però lei è così lenta che ho l'impressione che quei pochi passi durino un'eternità.
“Hai giusto il tempo di chiederti quanto ci metterai a morire, che già sarai bello che andato.”
Si stende sul letto raggiungendolo dai piedi. Si mette accanto a me, facendo del suo braccio un cuscino . Il cappellino da lutto, quello con la veletta che porta sempre, le si scompone un po’.
Finalmente, penso. Adesso mi sembra quasi umana.
“Appena tocchi terra fai un suono croccante" continua lei "te lo senti vibrare in tutto il corpo, e poi più nulla. Il sangue che scivola dal tuo corpo forma un fiumiciattolo che si insinua nelle fessure del piperno come un fiume. Serpeggia in tutta la discesa, fino all’incrocio più giù, dove si raccoglie in una pozzanghera.”
“Ci metteranno un sacco a lavarlo via.” Le rispondo, spegnendo la sigaretta nel posacenere.
Guardo il balcone vuoto di lei. Quella luce gialla lì fuori mi attira come se fossi diventato improvvisamente una fottuta falena.
“Scommetto che non lo faresti mai” mi dice Atropo. La sua voce ride di me.
Mi alzo dal letto come se fossi un gatto e in due balzi sono già fuori al balcone. Con uno slancio scavalco il basso parapetto di ferro e ho giusto il tempo di pensare “Perché dovrei farlo?”, che sono già con il cuore che mi preme in gola.
Mi sveglio di soprassalto. Affanno come se mi mancasse l’aria e ho bisogno di sedermi. Faccio cadere per terra il posacenere che si spacca. Tengo la testa tra le mani.
Non riesco a togliermi dalla testa quell’istinto di buttarmi giù, quella sensazione di cadere. Guardo il balcone aperto e mi vengono i brividi. Non voglio nemmeno avvicinarmi per chiuderlo, ho paura di quello che potrei fare.
Il gatto miagola e sale sul letto. Si mette vicino a me e fa le fusa.
È rosso con gli occhi verdi, proprio come Atropo.

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