lunedì 27 luglio 2015

Chameleon's Dish - Capitolo IX


Limone ad azione sgrassante.

Torno a casa.
Sbatto la porta dell’ingresso e inciampo in una sedia.
Non accendo la luce.
Vado direttamente a prendere il telefono. Lascio cadere il casco per terra. Faccio il numero di Maria, mentre sento le braccia che mi formicolano.
Le mie mani sono sporche di sangue, cazzo.
Sono in piedi con la fronte affogata nel braccio, nascondendomi gli occhi. Faccia al muro. In castigo. Mi fa male la testa. Il telefono bussa ma non risponde nessuno.
“Rispondi, cazzo rispondi…”
“Pronto?” Maria dormiva. Me lo ha detto la sua voce.
Non ho il coraggio di parlare. Respiro solo.
“Pronto?”
Dovrei dire qualcosa.
“Al, sei tu?”
“Sì.”
“Stai bene?”
“Ti ho svegliata?”
“Sì.”
“Mi dispiace.”
“Che ti prende? Tutto bene?”
“No.”
Sento dei rumori dall’altra parte. Credo si stia alzando dal letto.
“Vengo da te.”
“No. Non voglio.”
“Amore, che succede?”
 “Io… volevo solo sentire la tua voce.”
“Hai avuto ancora qualche incubo?”
“Sì.”
Non era un incubo.
Maria comincia a dirmi che devo stare tranquillo. Che se voglio possiamo vederci, e fanculo il lavoro domani mattina. Fanculo tutto. Le dico che va tutto bene. Sono solo uno stupido. Va tutto bene. Mi dice che mi ama. Mi dice che mi ama tanto. Poi riaggancio.
Mi sono macchiato la maglietta con il sangue. Forse ho sporcato anche il muro. Vado in bagno e comincio a lavare via tutto, e non si toglie. O forse sì. A me sembra di no. Prendo la spugna della doccia e il sapone per i piatti.
Poche ore prima Carmela mi guardava, inginocchiata per terra, con la faccia sporca della mia sborra. Mi ha trascinato a forza a conoscere le sue amiche. La scusa è stata una stupida festa nel bosco dei Camaldoli dove un gruppo di senegalesi ha deciso di esibirsi facendo musica politicamente impegnata. Roba da mal di testa.
Carmela mi ha visto poco incline alla conversazione, sia con lei che con le sue amiche. Mi si è avvinghiata al collo e mi ha infilato la lingua nell’orecchio. Mi ha afferrato il cazzo con la mano e ha detto “seguimi”. Ci siamo infrattati e me la sono ritrovata inginocchiata per terra mentre mi tirava giù la zip.
Quel posto è pieno di fazzoletti sporchi, chissà quanta gente c’è stata prima di noi.
Poi Carmela si è pulita la faccia, ha buttato i fazzoletti a far compagnia agli altri, e mi a baciato di nuovo, sulla bocca. Mi ha preso per mano e mi ha riportato dalle sue amiche, come fossi una bestia pronta per il sacrificio.
Le sue amiche sono tutte interessate a quello che faccio. Mi hanno fatto un sacco di domande alle quali ho risposto a monosillabi perché non mi andava di gridare: c’era troppo casino. Si sono messi tutti a ballare ma a me non andava. Carmela mi ha detto che sono noioso e ha cominciato a strusciarsi con una sua amica, perché secondo lei così mi sarei mangiato le mani. Io pensavo più alla mia birra calda che a lei.
Quando ce ne siamo andati c’era da camminare un po’ fino al motorino. Carmela era felice come una pasqua e mi teneva per mano, canticchiando roba in senegalese sbagliato, stonando. Era mezza ubriaca.
Il vialetto di merda che portava fuori al bosco dei Camaldoli dalla zona in cui c’era il concerto era fottutamente buio, buio pesto. La gente aveva smesso di arrivare perché era tardi, ma non tardi abbastanza per andare via, quindi era una strada senza anime da incontrare. Rumori inquietanti dappertutto. Non mi è mai piaciuto il buio.
Ci siamo ritrovati un coglione davanti. Sembrava fatto, o troppo poco fatto. Carmela non ha gridato, ha solo smesso di cantare e mi ha stretto le unghie nella mano.
Il tipo mi dice che vuole il telefono. Che vuole tutto. Pure i soldi.
Carmela è già pronta a darglieli, ma io sto troppo rotto il cazzo.
“Senti, non teniamo niente.” Gli dico sfasteriato. Carmela si cerca i soldi nella borsetta e io le strattono il braccio.
Lui tiene una specie di cacciavite in mano. Sembra talmente fuori di testa che mi si rivolta contro. Mi mette una mano in faccia, un dito nell’occhio. Dice qualcosa che non capisco. Sicuramente quel cacciavite non sapeva usarlo. Io ricordo perfettamente la sensazione fisica che ho provato quando, senza pensare, con tutta la forza che tenevo in corpo, me lo sono tolto di dosso con uno spintone.
È caduto per terra. Quel figlio di puttana era solo un disperato.
Non mi viene di pensare, però, che è solo un poveraccio. È lì, per terra. Mi ha rovinato la serata. Figlio di puttana. Comincio a prenderlo a calci nello stomaco, senza dirgli niente. Carmela grida. Non me ne fotte. Quello si lamenta. A me fa incazzare che quello si lamenta e mi ci butto sopra. Comincio a prendergli a pugni quella faccia da stronzo che tiene e che nemmeno riesco a vedere nel buio. Mi fanno male le mani. Continuo a prenderlo a pugni. Carmela grida più forte, fino a quando non sento che mi si aggrappa al braccio.
“Smettila! Basta cazzo smettila!” Sta piangendo.
Mi fanno male le mani e ho paura di aprirle. Sono bagnate, ma non vedo il sangue. A terra il tipo è fermo. Respira.
Carmela mi si fionda tra le braccia, mi continua a dire basta. Mi spinge via. Mi fa alzare da terra. Le metto una mano sulla spalla e solo allora mi accorgo che ho le nocche sporche di sangue.
“Andiamo via”, le dico. Sento che mi trema la voce.
Guido il motorino fin sotto casa di Camela. Lei sta ancora piangendo. Mi dice qualcosa, ma non voglio ascoltare. Riparto senza dire niente e senza farle finire la frase.
Lascio che i miei pensieri si affoghino insieme allo Svelto Piatti nel gorgoglio dello scarico del lavandino. Il bagno puzza di limone ad azione sgrassante.
Mi guardo allo specchio. Ho gli occhi da pazzo allucinato.
Non era un incubo. L’ho fatto davvero. L’ho fatto davvero. 

martedì 21 luglio 2015

Galveston - recensione [contiene SPOILER]


La settimana scorsa ho finito di leggere Galveston, che è un romanzo edito in Italia da Mondadori.
Mi aspettavo di leggere un capolavoro, e quindi questo significa che partivo proprio male. 
Ma andiamo con ordine.



Nic Pizzolatto.
Questo signore con un nome strano e una faccia anche peggio, è uno scrittore e sceneggiatore statunitense di origine italiana (lo dice Wikipedia) che ha creato di recente anche la serie TV di successo "True Detective". 
Ora, la serie tv, almeno la prima stagione, è un capolavoro. Non lo è tanto per quanto riguarda i contenuti, quanto piuttosto per il "come" è stata fatta. Un capolavoro dai titoli di testa (forse i migliori titoli di testa degli ultimi mille anni) alle interpretazioni degli attori. Un "Hard Boiled" da manuale. 
Esatto: da manuale. Il signor Pizzolatto è stato un insegnante all'università. Insegnava proprio "Fiction e letteratura". 
La sensazione che ho avuto nel vedere True Detective è stata: chi ha creato questa serie tv sa esattamente come si costruisce tecnicamente una buona storia.
La sensazione che ho avuto leggendo Galveston è stata: questo è uno che ha seguito un manuale per costruire tecnicamente una storia. 
Quando si costruisce tecnicamente una storia, si ha difficoltà ad avere quel guizzo creativo che rende quella storia un qualcosa di effettivamente unico. Non tutti riescono a rendere una buona storia una bella storia. Fa parte della mia filosofia di vita, roba che si capisce studiando pianoforte: finché sarai preoccupato di ogni singola nota che suoni, non raggiungerai mai una padronanza tale da fare della tua esecuzione una comunicazione artisticamente soddisfacente.
Questo libro mi è sembrato un pappone di americanate mischiato bene, ma dal sapore poco convincente.

Galveston
Il libro racconta una storia americana, molto americana, molto banale, leggermente moralista, di quel tipico moralismo americano e puritano di chi si appassiona a filmetti di serie b d'azione e si scandalizza nel vedere le tette di Janet Jackson durante il Super Bowl. 
La trama la trovate QUI , perché mi scoccio di raccontarvela daccapo. 
Non ci sono buchi nella coerenza della storia, ma in generale non mi ha strappato le mutande. Non mi ha emozionato l'evoluzione (effettiva o presunta) dei personaggi, e non mi è parso un libro con picchi di estro particolarmente elevati. I colpi di scena me li sentivo arrivare con un netto anticipo, e questo va pure bene, perché significa che li ha saputi costruire, come tensione narrativa. Era il colpo di scena in sé il problema: non era un colpo di scena. Era prevedibile. 

I personaggi

Roy Cady: il protagonista è uno scagnozzo di merda che nella sua vita non è mai stato veramente felice, se non quando si drogava con la sua ex a Galveston. 
Che cosa rende una persona infelice? Un'infanzia triste, l'assenza di una figura paterna, una mamma mezza fuori di testa che si suicida, una giovinezza in un istituto dal quale scappa e va a trovare il suo vero padre, che però muore.
Possiamo dire che al nostro scrittore non bastava dare al suo protagonista un solo motivo per fare quello che fa, ma ne ha dovuti trovare un sacco per giustificare moralmente l'idea (questo è il sospetto che ho) di star scrivendo di un poco di buono.
La storia sostanzialmente è una storia di redenzione, come piace tanto agli americani. Il protagonista non ha raccolto la mia personale simpatia, perché probabilmente mal sopporto un certo tipo di debolezze che non mi aiutano ad entrare nella vicenda. La sua volontà di redimersi me lo ha reso un romanticone debole di cuore, un senza palle, un tipo che all'improvviso si caca sotto di stare morendo e non ha niente di meglio da fare che passare il resto dei suoi giorni a sperare di rendere una puttanella senza speranze e senza attributi degna di recuperare la sua esistenza. 
Questo Roy mi ha dato l'impressione di essere un pupazzone di gomma piuma che ragiona come un ragazzino di quindici anni, un personaggio che non è mai cresciuto, un personaggio che piacerebbe a chi pensa"che figo un mostro di uno e novanta che vuole salvare le ragazzine per redimersi!"
Posso affermare che non è il libro che consiglierei a chi si aspetta un conflitto interiore di un personaggio che non sia il tipico conflitto interiore di uno stereotipo uomo da film d'azione degli ultimi anni. Sembra quasi un Leon, però fatto male. 

Rocky: mi sono detta"se non riesco a immedesimarmi nel protagonista, almeno il coprotagonista potrebbe lasciarsi voler bene". Mai pensata cosa più sbagliata.
Rocky è una poveraccia che tiene tutto lei. 
Drogata? Ovvio. 
Zoccola? Ma certo, ha preso una brutta strada. 
Zoccola recidiva? Ovviamente, è la tipica donna debole che è convinta di poter fare solo questo nella vita. 
Naturalmente è stata stuprata dal patrigno, certamente se l'è vista brutta con l'ambiente che la circonda. Ha avuto una figlia dallo stupro, sua madre pure era un po' zoccola ed è sparita. Tutti gli elementi per rendere questa creatura una larva umana ci sono. Il suo modo di reagire alla violenza del mondo è snervante, banale, debole. Non rispecchia precisamente un modello femminile forte.
Forse era una cosa voluta, direte voi. 
L'idea che mi sono fatta leggendo questo libro è che quando un uomo superficiale scrive di una donna, la rende ancora più superficiale di quanto spereresti.
Un personaggio che non solo non è eroico, ma possiamo definire eroicamente banale, privo di spessore. Un tripudio di pensieri stereotipati infilati nella tipica principessina bella e dannata che non vede l'ora di essere salvata.
Il modo in cui la descrive lo scrittore, inoltre, è il tipico modo pseudo romantico maschilista di presentarti una donna che non vede l'ora di essere sopraffatta dalla vita. 
Ho la sensazione che, nella logica di Nic Pizzolatto, la contrapposizione tra questi due personaggi doveva far suscitare qualche scintilla nella testa di chi leggeva. Roy risulta in qualche modo eroico nel suo tentativo di salvare la vita di quella povera anima, mentre lei (che si chiama Rocky e mi fa pensare che anche l'assonanza dei nomi sia voluta) deve farti incazzare perché proprio non ci riesce a capire che può salvarsi. In qualche modo c'è una specie di titanismo in questi due personaggi, ma il fatto che siano personaggi rubacchiati da una serie infinita di storie identiche a queste, rende il loro titanismo piuttosto sterile.

Tutti quelli che vogliono scrivere devono comprendere una lezione importante: tutto è già stato scritto. La maggior parte delle situazioni drammatiche esistono già, le favole, la mitologia, gli stereotipi, sono stati eviscerati in secoli e secoli di letteratura. Ormai la cosa più importante da fare, se si vuole scrivere, è arrendersi a questo dato di fatto e rinunciare al "cosa" per il "come".
Se io voglio raccontare una storia di redenzione, posso farlo in mille modi. La scelta che ha preso Pizzolatto non mi sembra vincente, perché non solo ha scelto un "cosa" piuttosto abusato, ma anche il "come" non mi ha per nulla impressionata.
Ogni personaggio che si rispetti deve avere dei segreti. I segreti di questi personaggi erano segreti di pulcinella. Nulla che non ti saresti aspettato. Segreti che speravi non ti venissero rivelati perché leggendo veramente ci speri che succeda qualcosa che renda questo libro realmente memorabile. E invece no, ti devi fottere.

La struttura
L'unica cosa mediamente creativa di tutto il libro.
C'è un andamento alternante tra passato e presente.Nulla che non sia stato già visto, ma almeno è una particolarità. Il libro, senza questa trovata, sarebbe stato veramente insostenibile.
Nulla che non sia stato già visto, tra l'altro, proprio in True Detective, dove i nostri protagonisti giocano appunto tutto sul raccontarsi a vicenda in un "presente" che ti fa capire che nella narrazione del "passato" qualcosa è andato storto.
In Galveston prima vediamo la situazione iniziale del nostro protagonista,in cui si evince immediatamente il conflitto che fa scattare la molla della storia (il fatto che ha il tumore e deve morire, il fatto che viene quasi fatto fuori). E fin qui ok, l'inizio non è male.
Nella seconda parte vediamo il nostro protagonista molti anni dopo: è diventato un simpatico vecchietto che porta a spasso il cane. Colpo di scena: in realtà non è morto per il tumore.
Bella trovata! Ti poni un sacco di domande su come mai non sia morto e sul perché vada in giro con un cane e senza un occhio.
Viene poi complicata la vicenda con un altro conflitto: qualcuno lo sta cercando. Cosa vorranno mai da questo vecchio?
Il ritmo è buono, la tensione regge. Un ottimo inizio, scrittura piuttosto scorrevole, per le prime pagine ti sembra di avere davanti davvero una cosa scritta bene.
Il problema è che già sai, ma proprio fin dall'inizio te lo senti scendere, che chiunque stia cercando Roy non è per farlo fuori. In pratica, fin dal secondo capitolo sai perfettamente cosa aspettarti dalle ultime pagine. Questo ritmo che hai creato cercando di mettere insieme questi colpi di scena, mescolando le carte, andando avanti e indietro sulla linea temporale, non solo non confonde il lettore, ma il contenuto di tutta la storia è così scontato che tutta la tensione che hai cercato di tirare su scema via come un palloncino che si sgonfia.

Lo stile di scrittura.
Bisogna premettere che ho letto la traduzione in italiano. 
Detto questo è apprezzabile che non faccia periodi minuscoli, come buona parte della letteratura americana e inglese degli ultimi anni.
Ha qualcosa di pulp, il protagonista parla come un Bukowsky ripulito e con un punto di vista da vecchio filosofo che ne ha viste tante.
C'è una specie di auto compiacimento nella scrittura, una mania di descrittivismo emozionale un po' da pippotto mentale, un po' troppi fronzoli, al limite della ricchionata.
Diventa particolarmente snervante immaginarsi un ex scagnozzo della mala appena alfabetizzato che pensa e parla in quel modo. Viene giustificato tutto quasi a fine libro con un "ma io tanto in carcere leggevo un sacco di libri". La scusa non regge, mi è sembrato davvero poco credibile. 

Conclusione.
La sensazione generale che ho avuto nel leggere il libro è che  Nic Pizzolatto abbia scritto una cosa semplice senza troppi picchi di altezza letteraria, una trama poco originale, personaggi scontati. Sembra più un esercizio di scrittura che un romanzo.
Certamente non possiamo dargli addosso per averci provato, e penso anche si sia tirato su dei bei soldi, soprattutto dopo il successo della serie TV.
Il libro è del 2010, quindi immagino che nel frattempo abbia imparato a essere meno banale. Non credo che rileggerei facilmente un suo libro, ma penso che bisognerebbe dargli un'altra possibilità, sperando che sia migliorato nel frattempo, almeno per quanto riguarda l'originalità della trama.
Tutto questo mi fa pensare che quando scrivi tecnicamente bene una storia, con tutti i colpi di scena e il resto al posto giusto, non è detto che venga fuori un capolavoro. Forse manca di estro creativo e questa storia andrebbe bene per farne una serie tv, o un filmetto, ma non credo che abbia la portata di un romanzo, di un'opera letteraria coi controcazzi.
Forse, dopo il successo della serie tv della HBO, bisognerebbe cercare di non divinizzare troppo questo autore e di farlo tornare tra i comuni mortali. Un buon scrittore di serie tv, un buon soggettista, un buono sceneggiatore, non è detto che debba essere un bravo scrittore. O, almeno, non è detto che tutto quello che faccia sia oro.

A chi consiglio di leggerlo: a chi legge perché deve perdere il tempo. A chi piacciono i Thriller con poca azione e con segreti di pulcinella da svelare. Ai fan boy di True Detective. Ai ragazzi, principalmente, alle ragazze un po' meno perché quasi tutti i personaggi femminili (quasi nessuno positivo) del libro sono descritti da un uomo che crede fermamente nella contrapposizione polare tra i due sessi (tema, ahimè, fin troppo superato, a mio parere).

A chi non consiglio di leggerlo: a quelli che, come me, si sono un po' rotti il cazzo di leggere storie tutte uguali. Alle ragazze che non amano personaggi femminili di poco spessore. A chi non è piaciuto True Detective.


lunedì 13 luglio 2015

Chameleon's Dish - Capitolo VIII
















Formicaio.

Carmela scrive uno status su Facebook in cui dice che adora taralli e birra a Mergellina.
Non credevo che le ragazze si conquistassero ancora in questo modo. 
Quando l’ho portata lì mi sono sentito abbastanza in colpa. Quando stavo con Maria quella era la cosa che finivamo a fare quando avevamo bisogno di parlarci un po’.
Lei mi portava vicino al mare per farmi pensare. Diceva che quando guardavo il mare i miei occhi si facevano scuri, i miei pensieri torvi e a lei veniva una gran voglia di tirarmi fuori le parole succhiandomi le labbra.
Avevo portato Carmela lì perché avevo voglia di essere il più lontano possibile dalla mia Bionda e il più vicino possibile ai miei pensieri torvi. Non avrei mai sperato di avere tanto successo.
Le amiche di Carmela scrivono sotto al suo post che vogliono sapere tutto. Lei risponde che è uscita con un tipo misterioso che ha un sacco di storie da raccontare (e poi ci infila un sacco di cuoricini prima e dopo). Mi viene da ridere, perché non ricordo di averle raccontato un cazzo. Credo solo di essermi sparato un sacco di pose, e poi a me riesce bene di fare il poeta maledetto, soprattutto con una ragazzina che non vede l’ora di farsi male.
Il suo post è lì, messo a galleggiare come una trappola. So che lei vorrebbe che io commentassi, e so perfettamente che non lo farò. Non mi piacciono queste cose.
Sto passando un pessimo pomeriggio tiepido davanti al computer. I tasti che Adriano mi ha messo a posto non sono più quelli di una volta. Quando ci batto le dita sopra li sento con un suono diverso, una specie di rimprovero. La bomboletta dell’aria compressa mi guarda male da un angolo della scrivania.
Decido che Ho passato troppo tempo davanti a Facebook e mi metto a guardare dei video di Rihanna che si dimena mezza nuda e per qualche istante penso che le vorrei mangiare il culo.
Il mio libro è a un punto morto. Sto scrivendo di un investigatore che cerca di risolvere il mistero di alcuni bambini fatti a pezzi e ritrovati in alcuni punti della città. Il fatto che io abbia ambientato questa storia a Napoli la rende molto poco credibile. Niente, l’investigatore è finito a un punto morto e forse questo è dovuto al fatto che ancora non ho capito perché hanno rapito i bambini, perché li hanno uccisi e soprattutto perché li hanno sparsi in giro per la città.
Cioè, ci si aspetta che uno che voglia fare lo scrittore sappia cosa voglia scrivere. E invece io no, perché mi sono fissato sull’immagine di un bambino fatto a pezzi e volevo parlare di quello, poi la storia ci sarebbe nata attorno piano piano. E mi sbagliavo, perché forse questa è una storia che da me non vuole essere scritta.
Dopo aver descritto minuziosamente lo studio dell’ispettore Massa, che è sostanzialmente simile a qualsiasi altro studio di ispettore della letteratura di questo genere, e inspiegabilmente simile alla mia casa attuale, chiudo il computer e metto mano alla bomboletta di aria compressa.
Sulle istruzioni d’uso c’è scritto che non si deve usare troppo da vicino. Forse avrei dovuto leggere quelle cose prima di sperimentarlo sulla mia preziosa tastiera. Mi chiedo cosa succeda se me lo punto in un occhio e sparo.
Fuori il tempo è bello, fa caldo, e qualcuno giù nel vicolo fuma erba facendomi venire voglia pure a me.
Delle formiche hanno fatto tana all’angolo del balcone che dà sul terrazzo. Si infilano nei muri, secondo me devono avere un universo immenso nelle intercapedini di tufo di questa casa vecchia. Adesso si stanno fottendo buona parte della scatoletta che ho dato quello stronzo di gatto ieri sera, che ha pensato bene di non mangiare. A quanto pare non gli piacciono le scatolette al pollo.
Mentre guardo le formiche penso che forse un giorno sarò costretto anche io a mangiare scatolette al pollo. Non mi posso permettere manco più le sigarette.
Fumo. Devo fumare.
Mi accendo una Pall Mall blu. Prendo il barattolo con l’aria compressa e comincio ad ammazzare con un getto preciso e ben direzionato una formica alla volta.
Prima penso che sono soldi ben spesi, poi mi sento in colpa. 
Ti immagini a essere una formica? Stai tipo cercando di portare a casa ai tuoi figli un pezzo di fottuto pollo che un gatto di merda non ha voluto, non è che stai rubando, eh. E poi arriva un coglione annoiato che decide di farti fuori. E i tuoi figli cosa penseranno? Si sentiranno in colpa. Se fossero stati abbastanza grandi magari sarebbero morti loro, mentre cercavano di procacciarsi il cibo. Adesso il più grande sarà costretto a trovarsi un lavoro da formica operaio, sottopagato, per permettere a suo fratello di continuare gli studi.
“Certo che ne pensi di stronzate, ragazzino!”
La voce di Atropo mi sorprende che sono ancora in pigiama e canottiera, chinato per terra a quattro zampe, con un mozzicone di sigaretta in bocca e in mano l’arma del delitto. Mi sento patetico.
La guardo dalla mia ingloriosa posizione.
“Da dove sei entrata?”
“Sono come i vampiri: dopo che mi hai invitato a entrare posso fare quello che voglio.”
“Davvero funzionano così i vampiri?”
“Non lo so.”
Mi alzo da terra e mi pulisco le ginocchia. Quel pigiama è rotto e macchiato, forse dovrei metterlo a lavare.
Spengo la sigaretta in un bicchiere di carta pieno d’acqua.
“Giochi a fare il Dio, Al?” Mi chiede la rossa, e pronuncia il mio nome come se volesse ansimarlo.
“Pensavo che ti facessi viva solo di notte. Com’è che sono le cinque e mezza e già rompi il cazzo?”
“Non devi mai dare per scontato le cose. Io vado e vengo come mi pare”.
Si siede sul tavolino minuscolo della cucina, che neppure scricchiola. È un coso pieghevole che ho preso da Ikea. Adriano l’ha dovuto montare lui perché io non ne ero capace, e comunque non mi ha mai dato l’impressione di essere molto solido, perché quando mi ci appoggio coi gomiti per mangiare lo sento pericolante. Invece sotto al peso di quella donna tutta forme non sembra vacillare nemmeno per un attimo.
“Al…”
“Che vuoi?”
“Perché tuo padre non è tuo padre?”
“Perché ha deciso che io non sono un buon figlio”.
Le rispondo indispettito e me ne vado dalla stanza sperando di non trovarmela avanti al cazzo ancora. Lo so che tanto è solo nella mia testa.
Vado al cesso e mi tolgo la canottiera. Mi tolgo pure il pantalone e le mutande e le infilo nel cesto di roba sporca che forse un giorno laverò, o riprenderò così com’è quando non avrò altro da mettermi.
Apro la tenda della doccia e mi ritrovo Atropo, sempre vestita di nero, sempre strizzata nel tubino, sempre con il cappellino da lutto.
“Che diavolo ci fai qui dentro?”
“Ti perseguito, no?”
Mi copro il pisello e mi sento ancora più ridicolo.
“Oh, andiamo, timidone…”
Mi si sporge addosso. Mi mette due mani fredde sulle spalle e poggia la fronte sulla mia.
Il suo cappellino è ruvido sulla mia pelle. Attraverso la veletta guardo gli occhi verdi di… chi cazzo è Atropo? È davvero la morte?
“Dovresti mettere un po’ di ordine nella tua testolina, ragazzino…”
Con la coda dell’occhio guardo l’asciugacapelli lasciato a terra vicino al bidet. Poi guardo la vasca da bagno. C’è una presa non troppo distante, dove dovrei tenere attaccato lo spazzolino da denti elettrico.
“Non lo farai”. Mi dice Atropo.
Poi mi sembra di vedere annebbiato per qualche attimo. Sento freddo.
Mi accascio contro il muro e faccio cadere un barattolo di borotalco che non aveva più niente dentro.
Il rumore mi da sui nervi tanto da farmi riprendere.
Atropo non c’è più.
Mi butto sotto la doccia e basta.


sabato 4 luglio 2015

Taccuino: autoanalisi.


Sono completamente bloccata, un po' a causa dell'esame che sto preparando, un po' a causa di altri fatti che non ho intenzione di rendere pubblici.
Non è un problema di blocco da pagina bianca, è un problema di concentrazione. E' come se tutte le mie energie siano state inghiottite in pensieri che mi portano sempre più lontano dalla trama di Al, per concentrarsi su qualcosa di estremamente più profondo.
Sto finendo dei percorsi, sto acquisendo consapevolezza, e questa cosa mi spiazza completamente.
Ieri ho parlato con Marco di una cosa che tendo a fare. Io analizzo tutto quello che mi circonda, e analizzo tutto quello che faccio. E' come se cercassi di riferire i miei pensieri, azioni, situazioni, a cose "altre", più lontane. Interpreto. Faccio l'analisi del testo a tutto.
Questa cosa non solo mi crea problemi nei rapporti con gli altri, ma si riflette anche in quello che scrivo.
Tutto quello che scrivo ha più di un livello di lettura. Ogni cosa rappresenta qualcos'altro, ha dei riferimenti letterari, ha dei riferimenti psicologici. Al è solo la punta dell'Iceberg, Al è nato come un personaggio estremamente "simbolista" (sebbene non di quel simbolismo che è una corrente culturale, ma un simbolismo più profano).
Io faccio questi riferimenti con coscienza, lo faccio perché sono abituata a tuffarmi in quello che studio, in quello che leggo, ascolto, guardo, e mi faccio un'idea che comincia a fermentarmi dentro fino a quando non trova una via di fuga nella scrittura. Sono sensazioni, stati d'animo, pensieri, emozioni, che non ce la fanno a restare troppo a lungo in silenzio e devono venire fuori.
Mi accorgo che solo scrivendo riesco ad avere pace, come se una volta fissate nero su bianco quelle cose restassero lì alla vista di tutti. Chiunque le può leggere, le può prendere, le può analizzare e fare sue. Per qualche tempo è come se, dopo aver scritto, avessi l'illusione di essermi sbarazzata di quelle cose, come se non facessero più parte di me, come se avessi completato la mia missione. Eppure è un'illusione, questa, perché non faccio altro che avere la sensazione di non aver dato abbastanza, di non aver descritto bene, sono insoddisfatta e atterrita.
Mi viene da pensare che queste cose che macerano dentro, se pure volessi descriverle a voce, non riuscirei a farlo.
Quello che mi ha messo in crisi è l'aver notato che tutti questi riferimenti che io faccio non vengono compresi. E se non vengono capite delle banali citazioni, dei banali riferimenti, per quale motivo la gente dovrebbe riuscire a capire le sensazioni più profonde che voglio trasmettere?
Io so che dentro i miei pensieri c'è una specie di potenza, di eternità, che resta bloccata solo dentro di me, che comprendo solo io, e questa mia incapacità di comunicare verso l'esterno mi fa stare male come se stessi metabolizzando un virus, come se avessi una febbre reumatica.
Sono imprigionata in uno stato di incomunicabilità. Le mie parole sono inadeguate.

Essendo un blog dove vorrei scrivere, ho pensato che il tentativo di descrivere i miei stati d'animo nei momenti in cui non riesco a concentrarmi su una storia precisa da portare avanti, possano aiutarmi in futuro ad analizzare (ma guarda un po') il mio processo creativo.
E' capitato anche in passato che io fossi preda di questa stessa identica sensazione di blocco, e per me potrebbe rappresentare una specie di quiete prima della tempesta.
Forse la mia creatività è come un'onda, e adesso sono nel momento in cui il mare si ritira nel prendere la rincorsa prima di andarsi a infrangere contro una scogliera. Sono nell'inspirazione. Nell'accumulare sensazioni. Verranno fuori in qualche modo, cazzo.

Prima di farequesto post ho cercato di curarmi scrivendo. E' venuta fuori una cosa della quale non sono completamente soddisfatta, ma la posto lo stesso, come se questo fosse un mio taccuino:

Prendi un pensiero fisso, che comincia a girarti in testa e comincia a fare una specie di turbine, un vortice, come quello che inghiotte Ulisse nella Divina Commedia. 
Il vortice è lì, e sono solo parole, una dietro l'altra, alcune confuse, alcune accentate. Ti trascinano verso un buco nero che tu sai che non vuoi raggiungere, perchè qualsiasi cosa ci sia lì dentro non sei sicuro di volerla capire.
Non ce la fai, provi ad aggrapparti a un pensiero che ti è sfrecciato sotto al naso, ma era troppo veloce e sei riuscito ad afferrarti solo a una virgola, che non è una sospensione lunga e quindi non può essere un'ancora sicura. Sguisci via, perché la virgola era un po' viscida come saliva, e continui a cadere giù, come Alice, senza tempo, senza voglia, e poi ti tuffi in quel buio, in quell'abisso e ne sei sopraffatto. Il tuo ultimo sguardo è verso l'alto, quella confusione di parole sembra starti dicendo qualcosa, pensieri, riferimenti, storie, indizi. La tua testa è troppo fottutamente umana per arrivare al nocciolo della questione e tutte quelle parole sai bene che non potranno mai essere usate per spiegare quel buio nel quale sei finito. Lo chiami abisso, lo chiami notte,  lo chiami come cazzo ti pare, ma non può essere nominato, non potrà mai essere capito da altri.
All'improvviso ti accorgi che tu SAI, che hai sentito dentro di te qualcosa che si muoveva, qualcosa di atavico, bestiale, e capisci che cos'è quell'abisso e sai che non potrai mai esprimerlo ad anima viva, perché le tue parole non bastano, perché le loro orecchie non sapranno ascoltare.